Che c'è da imparare dai testimoni di Geova o dalle sette?
Carissimo don Antonio, da alcune settimane la sua pagina ha una presentazione diversa e un indirizzo nuovo che uso per la prima volta. Mi piace vedere con chi parlo. Ma è solo un dettaglio. Da qualche mese, noto in Famiglia Cristiana una grinta e un passo svelto e deciso di cui si sentiva bisogno. Parlate chiaro e forte a 360 gradi, senza soggezione o riverenza o propaganda. In occasione dell'appuntamento elettorale, la voce del giornale s'è fatta notare, s'è sentita, è stata citata, anche criticata, ma con rispetto. Perché se lo merita, se l'è guadagnato. La voce, qualunque voce, è sempre di parte. Ma quando è trasparente, intelligente, non implorante o minacciosa, accende l'attenzione.
Penso che ci sia bisogno di una scossa responsabile in noi cattolici, educati troppo ad attendere l'imbeccata o la provvidenza, troppo abituati a delegare e a criticare se le risposte non sono all'altezza delle attese, alla cui realizzazione abbiamo solo pensato, magari pregando. Dobbiamo smetterla di lamentarci facilmente, pensando d'essere a posto, solo perché l'abbiamo detto.
Non avevo nessuna intenzione di scriverle questa settimana. Era tutto chiaro. Però, mentre leggevo "Primo piano", in strada, hanno suonato al campanello di casa due belle e gentili signore. Apro. Attendevo un familiare. Sono due attiviste. "Siete testimoni di Geova?", "Sì!", mi rispondono sorridenti e salgono decise. "Non vi ho chiamate, non ho bisogno di voi" rispondo brusco. Agitano un foglietto. "Mettetelo nella buca della posta. Grazie, buongiorno". Silvana, mia moglie, mi dice: "Non sei stato maleducato?". "Sono stato altrettanto deciso". Per un po' non ne parliamo.
In quelle persone c'era uno sguardo non di venditrici. Si vedeva che credevano in quel che facevano. Il foglietto è d'una semplicità, brevità e chiarezza esemplari: incuriosisce, lusinga. A loro cedono, di solito, le persone indecise, le famiglie con una sciagura addosso; nel momento del grande bisogno, i fedeli di Geova arrivano, ti avviluppano, ti fanno sentire la solidarietà, che poi si pietrifica e non ti abbandona più. Fino a stritolarti. Il foglietto ricordava la morte di Gesù; mi invitavano a riflettere sul perché del suo sacrificio.
Voi preti aiutateci a essere svegli, responsabili, non imbottiteci di prediche che infastidiscono, che continuano anche quando sono finite, perché ti senti trattato come un imbecille da accompagnare con la manina. Allora te ne vai per non addormentare quel filo di fede che resiste. Nonostante le mie convinzioni e, certamente, le mie presunzioni, io non avrei mai il coraggio di bussare alla porta del mio vicino, non per chiedere un po' di sale, ma per parlare della morte di Gesù. Perché? Lo chiedo perché non è solo affar mio.
Andrea Z.
Perché tanti cristiani sono così esitanti nel proporre la fede? Per qualcuno la ragione può essere proprio l'esiguità della fiammella, sempre sul punto di spegnersi. La poca fede è quasi soffocata dall'abbraccio di un'esile speranza: invece di rafforzarsi a vicenda, le due virtù cardinali, ridotte allo stato larvale, inducono ad ammutolire. Non sempre, però, una diagnosi così severa è giustificata. Ci possono essere altre ragioni, che inducono a comportamenti più discreti. Alcuni hanno, ad esempio, una vera e propria ripugnanza per atteggiamenti troppo dimostrativi, soprattutto quando assumono tratti esibizionistici. Che sono frequenti, detto col massimo rispetto, in chi ha la "sindrome del convertito" e tende a nutrirsi di convinzioni assolute. Si rischia di trasformare l'annuncio del Vangelo in una crociata. Sono più le sètte a caratterizzarsi come "missionari" o "apostoli" del genere. Alcune di queste Chiese impongono ai propri membri periodi di praticantato missionario (più d'una volta ci sarà capitato di incontrare giovani americani, inconfondibili nella loro austera eleganza, che a due a due vanno di casa in casa a portare annunci evangelici). Questi convertiti non in tutti suscitano reazioni di ammirazione. Qualcuno si irrita. Perché lo sguardo luminoso del convertito, anche quando è rivolto verso di noi, ha la tendenza a guardare "oltre". Se l'esempio non è offensivo, pensiamo a ciò che proviamo quando ci parla una persona innamorata: irradia felicità, ci travolge col suo entusiasmo, ma è possibile che la sentiamo estranea. Ha bisogno di noi per celebrare il suo felice approdo all'amore. E spesso passa, con disinvoltura, da noi a un altro, per celebrare le lodi del suo amore, perché le persone che incontra si equivalgono.
Non voglio sottovalutare il fascino delle comunità con gli stessi ideali, che danno sicurezza ai propri membri. Che non riguarda solo le sètte: anche una buona parrocchia o un movimento spirituale offrono lo stesso senso d'appartenenza. Fatta salva la buona educazione, non è giustificato nessun senso di inferiorità nei confronti di chi vive la fede in modo straripante. Possiamo sempre dire: "No, grazie", senza per questo sentirci credenti di seconda categoria. Però, al di là dei modi, dai testimoni di Geova o dalle sètte c'è da apprendere la capacità di saper rendere ragione della fede che professiamo.
D.A.
(tratto da un recente Famiglia cristiana)
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martedì 9 settembre 2008
Perché i cattolici non hanno lo stesso zelo dei testimoni di Geova o delle sette?
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